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Paolo Andreucci

Apro gli occhi e ti penso... Alle corse, Paolo Andrecci ci pensa molto spesso: le ha in mente appena si sveglia e pure mentre sta per addormentarsi: ogni mattina e ogni sera, come cantava Maurizio Vandelli. Perché correre è il suo lavoro e anche la sua passione. Da una vita, da quando Dario Cerrato lo portò a fare un giro sulle strade del Ciocco. Cambiandogli la vita. “Eh già”, conferma il garfagnino. Aggiunge: “Se non fosse stato un cliente assiduo del ristorante dei miei, non credo che sarei diventato un rallista. La via mia esistenza avrebbe preso una piega diversa”. Già, forse avrebbe continuato a mettere il suo talento a disposizione dei giovani sciatori. Lo sci avrebbe avuto un istruttore in più, i rally un campione di meno. E quattro titoli italiani sarebbero andati a chissà chi.

- In venti e passa anni di onoratissimo servizio hai vinto tanto, tantissimo. Anche nel campionato continentale, ma la tua carriera s’è essenzialmente consumata nel Belpaese. Non ti è ancora venuto a noia rifare sempre le stesse gare?
“Beh... Purtroppo i budget necessari per correre a un certo livello li si trova solo in Italia e chi investe cifre importanti chiede si vedere il suo marchio in Italia. Ma...”

- Ma? “Ma a ventitrè anni, quando mi offrirono l’occasione di assaggiare il mondiale con una Delta Gruppo N, in Portogallo finii ottavo assoluto e secondo in Produzione. Solo che i soldi finirono presto e dovendo a tornare a pagare, non ebbi scelta. Adesso, forse, le cose sono un po’ cambiate e grazie alla Pirelli e al programma Star Driver qualche giovane ha la possibilità di disputare il mondiale”.

- Rimpianti?
“Tanti perché, allora, non ci sarebbe voluto molto a fare il salto. In fondo, sarebbe bastato che la Lancia avesse continuato per un altro anno: fosse successo, penso che ce l’avrei fatta ad entrare nel giro del mondiale e a restarci”.

- Altre occasioni?
“Nel 2000, i responsabili della Pirelli caldeggiarono il mio ingresso nel Subaru World Rally Team e, a un certo punto, sembrava fatta. Poi gli inglesi chiesero quanti anni avessi e non se ne fece niente. Ma le mie soddisfazioni in ambito internazionale le ho comunque avute, svolgendo molti test con la stessa Subaru e poi con la Ford: non è come correre, certo, ma anche lavorare con un team ufficiale per sviluppare auto e pneumatici è comunque appagante”.

- Tante gare, tante vittorie. E tantissimi exploit. Fra tutti, quale consideri il più esaltante?
“Quello al Sanremo del ’97 quando vinsi la prima prova speciale. Un’emozione e una soddisfazione unica”.

- Hai appena vinto un altro titolo, che gusto ti ha lasciato?
“Diverso, particolare. Non è stato il più difficile nel senso che, tornato alla Peugeot, sapevo di disporre dell’auto migliore e sapevo anche che da parte della Pirelli c’era tanta voglia di sviluppare nuovi pneumatici, ma al tempo stesso c’era il problema di dover saltare due gare precludendoci la possibilità di scartare. Insomma, non potevamo sbagliare e posso dire che Anna e io siamo stati bravi a non commettere errori”.

- Negli annuari resterà che Luca Rossetti ha chiuso con i tuoi stessi punti...
“Vero, ma è anche vero che a due gare dalla fine avevamo già ipotecato la vittoria e di conseguenza a Sanremo e a Como abbiamo corso con uno spirito diverso. Resta il fatto che nel corso della stagione abbiamo vinto quasi il doppio delle prove speciali dei nostri rivali e comunque lo si è vinto ed è stato bello farlo contro piloti forti come Rossetti e Travaglia”.

- Il ricordo si stempererà presto, per ora, però, è difficile non pensare alle polemiche che hanno avvelenato la vigilia del San Crispino.
“Una brutta storia, una di quelle che non fanno bene a nessuno”.

- Già. Ma ha riproposto un problema, quello delle ricognizioni, nel quale sei stato spesso coinvolto.
“Tanti anni fa, anch’io, come tutti, provavo tanto. Erano altri tempi, c’erano altre regole, ma da quando sono cambiate, mi sono adeguato”.

- Eppure sei spesso nell’occhio del ciclone...
“Eh sì, c’è chi continua a coinvolgere me anche quando sono altri ad effettuare più passaggi del consentito. Io comunque ho la coscienza a posto e difatti sono stato il primo a proporre alla Csai di obbligare tutti i licenziati a firmare una liberatoria che permetta alle forze di polizia e ai commissari di rendere pubbliche eventuali infrazioni in modo che chi è preso in fallo venga sanzionato. E non con una multa: per risolvere quello che è un problema vero, bisognerebbe punire che sgarra con un anno di squalifica. Ma allo stesso tempo bisognerebbe dare la possibilità ai debuttanti di effettuare cinque o sei passaggi e non tre come noi”.

Guido Rancati