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1 Mag [2:04]

Imola, Ratzenberger, Senna:
vi racconto il mio 1° maggio 1994

Massimo Costa

Non ho mai scritto un articolo in prima persona, né sul settimanale Rombo per il quale ho lavorato come redattore dal 1992 al 2001, né su Autosprint che mi ha accolto come collaboratore nel 2001 e tuttora mi concede di esprimere le mie cronache, i miei commenti. Neanche sul website che dirigo, Italiaracing, grande avventura iniziata nel 2003 con i miei colleghi ex Rombo. No, non l’ho mai fatto. Perché? Non ne ho mai visto il motivo, non mi piace parlarmi addosso. In questi giorni però, con l’avvicinarsi dei 25 anni di quel tragico weekend di Imola dell’1 maggio, cercavo di capire come ricordare, come affrontare su Italiaracing quel dramma che per sempre ha segnato tutto il motorsport. Non trovavo una via di uscita, non mi andava di cavarmela con il solito articoletto che si usa in questi casi. E allora, mi sono detto: e se provassi a raccontarlo “buttando fuori” tutte le emozioni che mi trovai a vivere in quei tre giorni? Mi sono anche risposto: ma a chi può fregare? Va be, per una volta, proviamo, ho concluso.

29 aprile 1994. Da due anni e un mese vivo in una bolla di felicità. Folle appassionato di corse fin da bambino, e chissà perché considerando che nessuno in famiglia, nessuno tra i miei amichetti, provava il minimo interesse per quello sport a quattro ruote, mi ritrovo dal marzo 1992 (sarò sempre grato ad Alberto Sabbatini e Pino Allievi che hanno creduto in me) ad essere redattore di Rombo. Un colpo memorabile. Seguo la F3 italiana, ma in redazione mi occupo di tutto, una giornata alla settimana la dedico anche all’archiviazione delle foto, le slide. Scelta accurata, complicata, una busta per ogni pilota dalla F1 in giù con i migliori scatti. Faccio subito una puntualizzazione: non c’era internet, o meglio non come oggi, non esistevano i social, i giornali andavano forte, le foto non erano in digitale. Un altro mondo praticamente. E non avevo neanche il telefonino, arrivato nelle mie mani soltanto nel 1996.

Il direttore Sabbatini mi fa avere il pass media per Imola, come i due anni precedenti. Fantastico. L’autodromo imolese è il mio luna park, dove ho assistito a decine e decine di gare di ogni categoria a partire da quando avevo 13 anni (1977), con i genitori che mi accompagnavano in tribuna e a volte rimanevano, a volte se ne andavano per la città mollandomi sui gradoni solo e soletto (altri tempi) con i miei sogni. A Imola, ho seguito tutti i Gran Premi F1 in tribuna centrale le prime volte, variante bassa poi. Dal 1979 (15 anni, portato da mio padre che mi ha lasciato davanti alla biglietteria con i soldi per il biglietto della tribuna coperta perché pioveva, quindi niente Tosa che era la mia prima idea) al 1991. Poi, dal 1992 sono passato dall’altra parte, dietro quelle finestre della sala stampa posta sopra i box che speravo, ma francamente mai immaginavo, di poter frequentare un giorno chissà quando.

Venerdì 29 aprile sono nel paddock, parlo con alcuni dei piloti italiani, con Giancarlo Minardi che mi conosce fin da quando scrivevo per i giornali ravennati, sono in compagnia di Franco Panariti e Paolo Ciccarone, gli inviati per il Mondiale di Rombo. A un certo punto, nelle minuscole televisioni poste sulle scrivanie della sala stampa, vola via all’ingresso della variante bassa una Jordan. E’ quella di Rubens Barrichello. Un botto pazzesco, la vettura a testa in giù. Paura. Panariti entra in crisi, Barrichello lo conosce molto bene e anche la sua famiglia. Si agita, va verso il centro medico, io rimango in sala stampa. Tutto bene, Rubens è solo un po’ acciaccato. La F1 è sicura, non è più quella di una volta ci diciamo. Già…

Sabato mattina torno a Imola, ma non per lavoro questa volta, ma da tifoso. Vado con Barbara, mia futura moglie. In macchina, carico la bicicletta con cui poi ci dirigiamo (lei sul manubrio) dal centro città alla curva Villeneuve. In mano, due biglietti prato. Arriva anche Lallo, grafico di Rombo, futuro socio alla Inpagina-Italiaracing. Guardiamo le prove libere del mattino, quel punto dell’autodromo è fantastico, per anni da lì ho spesso seguito tutti i test che la F1 svolgeva solitamente nel mese di aprile. Imola era ritenuto il miglior tracciato al mondo per verificare la bontà delle monoposto, dalla variante bassa alla Tosa nessun’altra pista permetteva di tenere il pedale dell’acceleratore a fondo per un così lungo tratto. Poi, staccate dure (la Tosa appunto), curve toste come la Piratella, la Rivazza. Un banco di prova unico. Alla curva Villeneuve che si faceva praticamente in pieno, quel rombo folle, le velocità raggiunte (330 e oltre), facevano sembrare le monoposto aerei in decollo. Barbara, prima volta in questo circo, era esterefatta.

Atmosfera splendida quel sabato mattina. Fa caldo, la gente è felice, una festa. Concluse le prove, torniamo a casa, nella mia Lugo, a 20 minuti dall’autodromo, per vedere la qualifica in TV, poi nel pomeriggio ho la partita a calcio, immancabile, con gli amici. Non si può dire di no, è una cosa seria ed il mio ruolo è quello del portiere. Sono sul divano quando come un lampo appare sullo schermo, tra la Villeneuve e la Tosa, la Simtek semidistrutta, con nell’abitacolo quel casco rosso e bianco ciondolante del povero Roland Ratzenberger. Neanche 90 minuti prima ero lì. Realizzo subito che sbattere in quel punto, in quel modo, non si ha scampo.

Mi vengono in mente immagini simili di qualche anno prima, quando la Lotus di Martin Donnelly a Jerez esplose e il pilota irlandese era sull’asfalto, come un fantoccio. Intanto, i dottori circondano la Simtek, estraggono Ratzenberger e più volte praticano il massaggio cardiaco. Immagini durissime che potevano evitare di mostrare. Sono stordito, vado in camera mia, piango. Telefono a casa di un amico (niente cellulari) dico che non vado a giocare, mi prega di andare, senza portiere come si fa. Va be. Mentre mi cambio, la tv comunica che Roland non ce l’ha fatta. Freddamente penso alla busta Ratzenberger che è nel cassetto archivio in redazione, con le foto migliori che ho selezionato dei precedenti due Gran Premi. Sì, ce ne sono abbastanza. Poi, faccio un ripasso della sua carriera, della sua chance finalmente avuta per correre in F1. E di come è tragicamente finita.

Tornato dalla partita, mi chiama (a casa, niente cellulari…) Sabbatini, direttore di Rombo. Faremo tutto il giornale sull’incidente, sulla morte che torna in F1, sul povero Roland. La sera, sabato, sono come inebetito, e oggi non ricordo neanche cosa feci, se uscimmo con i soliti amici di Barbara, se rimanemmo a casa sua. Domenica arrivo in redazione per assistere, come sempre, al GP con Sabbatini e i colleghi. Tutti assieme. Poco prima ho preparato le foto di archivio di Ratzenberger, più quelle dell’incidente arrivate da poco. Chiamo anche Mauro Martini, che si è costruito una gran bella carriera in Giappone, proprio come Roland che conosceva molto bene. Mauro, nessuna parentela con Pierluigi Martini (curiosamente tutti e due di Lavezzola, non lontano da Lugo), mi parla di Roland e mi racconta che la notte non lo ha lasciato solo in quella camera mortuaria di Bologna in cui era stato portato. Unico a esserci perché i famigliari non erano a Imola. Poi, seppi che il padre e la madre appresero casualmente della morte del figlio da un notiziario mentre erano in Messico in vacanza. Pensate che dramma. Un gran bel gesto quello di Martini, che come vedete, non ho mai dimenticato.

In redazione, ci sediamo davanti alla tv. Ha senso ci chiediamo, che si corra? Va be. Pronti via e subito un altro incidente davanti ai box, con una ruota che vola in tribuna e ferisce gravemente uno spettatore. Ma che sta succedendo a Imola? Dalla tragedia sfiorata di Barrichello, un crescendo di drammi da film dell’orrore. Ancora una manciata di minuti e la Williams di Ayrton Senna va dritta contro il muro del Tamburello. Non mi preoccupo minimamente. Contro quel muro ci avevano già picchiato forte in passato Nelson Piquet, Michele Alboreto, Gerhard Berger, Riccardo Patrese ed era finita sempre bene. Senna, però, rimane dentro la Williams. Il panico inizia ad impossessarsi di tutti noi. Dai scendi. No dai, magari si è fatto male a un piede, a una gamba. Arrivano i dottori, si agitano, la situazione comincia a sembrare grave, molto grave. Improvvisamente il casco di Senna ha un movimento, tiriamo un sospiro di sollievo. E invece, drammaticamente, fa male dirlo, in quel preciso istante esala probabilmente l’ultimo respiro. Anche se poi si dirà che Ayrton è deceduto all’ospedale di Bologna.

Ora, potete immaginare lo shock di tutti noi in redazione. Un dramma dietro l’altro. Non sappiamo più cosa fare, non abbiamo la forza di costruire un giornale. Eppure lo facciamo. Finiamo alle 4 del mattino, stravolti, ci sembra sia trascorso un mese da quando ci siamo incontrati alle 13 in redazione. Ogni tanto andavo in bagno a piangere, a respirare, poi mi rituffavo nel lavoro. Torno a Lugo di notte affranto, i giorni successivi sono ancora peggio. Non voglio dilungarmi troppo su Senna, lo hanno fatto in tanti in questi anni. Libri su libri, tutti amici di Ayrton… anche chi in realtà mai ci ha parlato. Io non l’avevo mai conosciuto, ma non so perché, era come fosse un fratello per me. Una sensazione che non avevo mai vissuto prima e neanche dopo mi è capitato con uno sportivo. Dal 1982 quando leggevo di quanto fosse bravo nella F.Ford in Gran Bretagna, per non parlare di quel che si raccontava nel karting, dal debutto in F1, da semplice tifoso ne fui subito rapito. Era, per me, qualcosa che andava oltre ogni cosa, non riesco a spiegarvelo. Una volta entrato nell’ambiente come giornalista, questa sensazione è rimasta, si è rafforzata. Le sue foto, per Rombo, le sceglievo accuratamente, conoscevo ogni sua smorfia, ogni suo sguardo, ogni suo movimento del casco nelle curve. Senna morto in pista era qualcosa di inimmaginabile, non solo per me, ma per tutti come poi si è visto.

Da quell’1 maggio, tante cose sono cambiate. Il “mio” circuito di Imola stravolto nella configurazione, non l’ho più sentito mio. Qualcosa si era rotto per sempre, ma non la folle passione per il motorsport. Quella no. Da quell’1 maggio 1994 non sono più andato nelle zone del Tamburello e della Villeneuve, quella parte del circuito l’ho vista per 25 anni solo in TV. Mi hanno spesso chiesto perché non andassi alle commemorazioni in pista. No, la ferita riportata in quel fine settimana (iniziata come detto sopra come una festa) è stata troppo grande e ogni volta che si parla di quel 1994 si riapre dolorosa. Potrà sembrarvi strano, ma è così. Ho cancellato quei due punti del circuito, non li voglio vedere, non ci voglio passare di lì. Quel weekend ha segnato profondamente tutti noi che l’abbiamo vissuto in quella redazione. Mi rimane il ricordo di un cappellino di Ayrton, originale, che lui stesso aveva dato ad Alberto Sabbatini dopo che il direttore lo aveva intervistato al ristorante San Domenico di Imola qualche anno prima. Era proprio il suo, di Ayrton, ma nessuno lo sa, se lo raccontassi potrebbero anche pensare che l’ho comprato in una bancarella e che faccio il grosso… Già, avrete capito che non mi piace granché mettere in mostra le mie emozioni vissute nel motorsport e che questo articolo, per la prima volta dopo 25 anni, racconta, non senza fatica (ora che sono arrivato alla fine mi pare di essere tornato a quella domenica notte in redazione), il mio 1 maggio 1994. Spero di non avervi annoiato.