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Quale era il suo piano? Tornare di là dal

mondo con nuove tecnologie e nuove

conoscenze da usare come vantaggio

competitivo? Ulisse sapeva che non sarebbe

più tornato».

Motorsport e ingegneria aerospaziale

sono da sempre molto legati: vogliamo

analizzare meglio in che modo?

«Il nostro equipaggio di “marinai Dallara”

che ha progettato e costruito il trapano era

molto snello: abbiamo lavorato a questo

programma nelle ore di lavoro straordinarie.

Il responsabile della produzione, Italo

Montanari, ora in pensione, uomo dal

grande senso pratico di cui mi ricordo

sempre le metafore del mondo contadino

applicate all’esplorazione spaziale, un

giovane progettista mago delle superfici ora

padre di due bambini, un bravissimo

meccanico, un ingegnere tirocinante ed io,

nessun manager: interessante. Ci gestivamo

da soli tra tanti altri progetti così urgenti e

così importanti che adesso... non ne ricordo

più nessuno. Questo progetto del “trapano

spaziale” invece era delicato e sobrio, con

un così profondo respiro del tempo che forse

resterà nella memoria del genere umano

come un atto coraggioso di conoscenza;

come Galileo che osò scrutare la luna e i

pianeti per scoprire che questi non erano

perfetti e sferici come pretendevano per

dogma di fede i filosofi e i teologi; come

Werner von Braun che dopo gli anni terribili

in Germania dedicati allo sviluppo della

micidiale V2 fu accolto dagli americani e,

grazie alla sua esperienza con i missili

strumenti di morte, addirittura guidò il

programma spaziale per conquistare la

Luna».

A un ingegnere come te viene mai la

tentazione di progettare una vettura da

corsa tele-guidabile come una astronave?

«Forse avevo questa tentazione, o meglio

questa presunzione, vent’anni fa quando

pensavo che i meriti dei successi in una

gara fossero principalmente da ascrivere agli

ingegneri. Poi ho avuto la possibilità di

guidare una piccola monoposto nei corsi di

pilotaggio di Henry Morrogh e mi sono reso

conto che il pilota è quasi tutto. Una

vettura da corsa teleguidata non è una

vettura da corsa, ma solo un videogioco che

interessa solo chi gioca e annoia gli altri.

Anche dietro la missione Rosetta ci sono i

piloti: sono gli uomini del centro di controllo

di Darmstadt, il Politecnico di Milano e tanti

altri. Rosetta da sola non rappresenta nulla,

è solo un oggetto perso nello spazio».

Sugli schermi è uscito il kolossal

americano “Interstellar”, che parla della

ricerca di un habitat alternativo alla

terra a grandissima distanza da noi.

Oggi disporremmo di una tecnologia

adatta a questo compito?

«La tecnologia c’è, ovviamente; manca il

sogno. Scriveva Emily Dickinson una

bellissima poesia: Per fare un prato basta

un filo d’erba e un’ape.

Un filo d’erba e un’ape.

E un sogno.Un sogno può bastare.

Se le api sono poche.

Se pensi che l’uomo ha camminato sulla

Luna quasi cinquant’anni fa, senza super

computer, Internet, GPS, carbonio,

processori real-time, cosa potremmo fare

oggi? Cercare un habitat alternativo

significa che dobbiamo scappare da qui, che

abbiamo distrutto il nostro stesso mondo,

che lo abbiamo riempito di rifiuti e

l’abbiamo reso nocivo a noi stessi. Pensa

all’isola di Pasqua, un’isola così lontana dal

continente che non c’è possibilità di

comunicare con nessuno: gli abitanti hanno

distrutto tutti gli alberi e tutti i prati per

spostare idoli di pietra fino alla morte di

tutti. Ora estendi l’isola di Pasqua al mondo

e ritrovi la stessa dinamica: siamo un

mondo limitato e finito; ci conviene averne

cura, “conserviamo quello che non possiamo

generare”».

Perché, allora, questa missione?

«Perché solo andando indietro nel tempo

capiamo chi siamo e possiamo usare la

fionda per avanzare verso il futuro. Da soli

con i nostri mezzi non arriveremo mai. Se ci

basiamo solo sulla forza di remi dopo un po’

ci stanchiamo; se alziamo la vela e la

sappiamo governare, voliamo nel vento e

arriviamo dove vogliamo. Le comete, così

come gli asteroidi sono i detriti di collisioni

che risalgono al tempo della formazione del

sistema solare. Se dall’analisi dei campioni

di suolo cometario si troveranno

aminoacidici, ammoniaca sotto forma di

ghiaccio secco o composizioni di cristalli

primordiali che ritroviamo qui sulla nostra

Terra, allora capiremo meglio la sostanza

delle stelle, del Cosmo (che significa

letteralmente il Bello Eterno) e di noi stessi.

“Noi siamo fatti della stessa sostanza delle

stelle!».

Andrea Toso

e Stefano Semeraro