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Newey lascerà la Red Bull
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Un italiano in America. Luca Ghiotto, dopo un lungo inseguimento, farà il suo debutto nella Indycar. Il 29enne pilota veneto ...

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Svelata la Gen3 Evo: maggior efficienza
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Regional by Alpine

Test a Hockenheim - 4° turno
Stromsted 'pole', Badoer al top

C'è sempre Noah Stromsted al primo posto della classifica dei test di Hockenheim. Il danese, già leader nel turno del mat...

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Test a Montmelò - 3° giorno
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Isack Hadjar e il team Campos se ne vanno da Montmelò con i tasca i milgiori tempi della tre giorni di test Formula 2. Una be...

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Regional by Alpine

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Paolo Andreucci

di Guido Rancati

Per le nozze d’oro c’è tempo. Ma quelle d’argento, Paolo Andreucci le ha già festeggiate un anno fa. Vincendo un altro campionato italiano, il quarto consecutivo, il settimo in una carriera iniziata nel mille e novecentottantasette. E pur se per lui non è ancora tempo di bilanci, l’inossidabile garfagnino accetta di guardarsi indietro.

- Parafrasando Enzo Ferrari, si può dire che la stagione più bella è sempre quella che verrà. La più brutta, invece?
“Quella del ’92, quando praticamente non corsi per mancanza di budget. Ma anche quella del ’95, spesa a sviluppare la 306 non è che mi abbia lasciato tanti bei ricordi…”.

- L’ottantanove, invece…
“Avevo ventiquattro anni e a fine febbraio, con appena otto gare disputate, mi ero ritrovato al via del Portogallo con una Delta Integrale Gruppo N. Di quel Portogallo con trentasette prove speciali e quasi seicento chilometri di gare vera, su terra e asfalto… Non era una passeggiata e tuttavia, alla fine ci ritrovammo ottavi assoluti, secondi in Produzione a meno di quattro minuti da Gregoire De Mevius con la Mazda 323 4WD. Dopo essere stati davanti al belga e agli altri avversari diretti in tratti mitici come Freita e Arganil dove si diedero quarantacinque secondi a Gustavo Trelles”.

- E poi?
“Anche se all’inizio s’era parlato di disputare tutto il mundialito, il budget era praticamente già quasi finito: si andò all’Acropoli con pochi ricambi al seguito e finì come doveva finire, con un ritiro. E la Delta del Jolly Club la ritrovai solo a fine anno, in Valle d’Aosta: non era quello che mi ero immaginato e che avevo sperato, ma ero comunque contento di aver avuto la possibilità di assaggiare la serie iridata”.

- Non nel mondiale, ma una Delta Gruppo A, oggetto del desiderio di tutti i rallisti del globo terracqueo, l’hai avuta fra le mani l’anno dopo. Per poco però.
“Per il ’90 mi proposero di disputare il campionato terra con una delle Lancia gestite da Maurizio Rossi e ovviamente accettai. Si vinse ad Adria, primo appuntamento dell’anno, e si rivinse a Cremona: tutto stava andando bene…”.

- All’Asinara il patatrac. Cosa successe?
“Successe che sugli sterrati di Osilo si sfilò il piantone delle sterzo e non potei evitare di andare dritto. Pochi giorni dopo mi fecero sapere che la mia esperienza con il Jolly poiteva considerarsi conclusa. Il programma era stato stoppato e io ero il cretino della situazione”.

- Un verdetto ingeneroso, frettoloso e senza appello. Non ti difese proprio nessuno?
“Da quanto mi risulta, ci provò l’ingegner Vittorio Roberti che cercò di sapere come fosse successo che il piantone si fosse sfilato. Gli risposero che la cosa era andata diversamente, che non c’era stato nessun guasto e che l’uscita era la conseguenza di un mio errore. Per il resto, no, nessuno prese le mie difese. E qualche tempo dopo, durante lo svolgimento di un Sanremo nel quale davo una mano a Dario Cerrato, quando qualcuno dell’Abarth fece il mio nome per svolgere dei test, il direttore sportivo del Jolly ribattè che non era proprio il caso, visto che avevo appena distrutto un’auto. Disse proprio così, forse non immaginava che grazie al ponte-radio ero all’ascolto”.

- Facile immaginare cosa provasti in quel momento…
“Ero stanco di frequentare le gare soltanto come ricognitore e avere la riconferma di non essere creduto contro ogni evidenza mi convinse a dire basta: ringrazia il Jolly Club per le opportunità che mi aveva dato e voltai pagina, anche se non sapevo bene come avrei potuto continuare a correre. Ripartii con il Trofeo Peugeot Rally, vincendolo, e Claudio Berro mi fece fare qualche test con la 309 Gruppo N”.

- In ventisei anni hai avuto modo di pilotare parecchie auto. Quale ti è rimasta particolarmente nel cuore?
“La Peugeot 207 con la quale ho vinto tante gare e gli ultimi quattro campionati italiani. Ma anche l’Impreza S03 che contribuii a sviluppare: tutta elettronica, era veramente una vettura eccezionale. Si viaggiava con lo zero cinque di camber e non aveva né beccheggio, né rollio. Una vera auto da corsa”.

- A parte la bella parentesi con la Renault Mégane dell’Autorel, quella con la Subaru Impreza della Procar e quella con la Focus del tuo primo titolo tricolore, la tua carriera s’è sviluppata essenzialmente con il Gruppo Fiat e con la Peugeot Italia. In quale di queste due realtà ti sei trovato meglio?
“Con la Peugeot: con i dirigenti che si sono succeduti ai vertici dell’azienda e con Fabrizio Fabbri e tutti gli uomini della Racing Lions s’è creato un feeling eccezionale. Ma anche le annate con la Fiat mi hanno lasciato dei bei ricordi, almeno finché c’è stato Mauro Sipsz. Dalla metà del 2006, quando lui ha lasciato, la situazione è cambiata e, per me, non in meglio”.

- Cos’è stato a spingerti, alla fine del 2008, a lasciare lo Scorpione?
“Con la nuova dirigenza, e non mi riferisco a Berro, non mi trovavo. Ero convinto che con una struttura come quella che era stata costruita fosse un peccato non fare qualcosa di veramente grande e, dall’interno, avevo sempre più spesso la sensazione che, come il Titanic, si stesse andando incontro all’affondamento. E’ per questo che scelsi di cambiare aria, anche se non fu una decisione facile. Anche se ancora adesso ho ottimi rapporti con il novantanove per cento delle persone con le quali lavoravo allora”.

- Quest’anno il tuo obiettivo è dimostrare che la 208 R2 può giocarsela con le altre due ruote motrici delle ultime generazioni. Interessante e magari anche stimolante, ma è pur sempre un passo indietro…
“Sì e affrontarlo non è stato semplice. Passare da una due a una quattro ruote motrici è sempre piuttosto facile, fare il cammino inverso è assai più complicato: con meno trazione, meno freni e meno potenza, per fare il tempo bisogna scegliere molto bene le traiettorie e farlo non è come dirlo. Comunque qualche soddisfazione ce la stiamo prendendo, in attesa di correre con la 208 R5”.

- Che impressione ti ha fatto quella che sarà la tua arma l’anno venturo?
“Decisamente buona. Le prestazioni sono già simili a quelle della 207 Super2000 e trovo che sia estremamente positivo che i tecnici abbiamo trovato il modo di realizzare un’auto in grado di andare tanto forte rispettando un regolamento che ne fissa il costo in cento e ottantacinquemila euro. Anche se, personalmente, avrei stabilito un prezzo ancora più basso limitando gli interventi sulle scocche e permettendo una flangia meno ridotta”.

- In questo strano Paese, in questo ancor più strano ambiente, c’è chi da qualche tempo va dicendo che ormai sei un peso per tutto il movimento nazionale…
“Non sono ovviamente d’accordo! Capisco di essere un termine di paragone scomodo per i giovani che scalpitano, ma credo che anche per loro sia importante scoprire che in Italia si fa forte prima di scoprirlo all’estero. Piuttosto, penso di essere un esempio e uno stimolo per loro e del resto, mi pare che sia sempre stato così quando ero giovane, a vincere erano i Cerrato, i Cunico, gli Zanussi”.

- Le prossime candeline che troverai sulla torta saranno quarantanove. Dove trovi la voglia di continuare a macinare chilometri su strade che sono poi sempre le stesse?
“Correre è la mia passione, la mia vita. E per continuare a poterlo fare da ufficiale, impegnarmi anche nei test non mi pesa per niente. Smetterò quando mi accorgerò di non essere più competitivo o quando il ricordo dei sacrifici che ho fatto per arrivare fin qui sarà meno nitido nella mia mente…”.