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5 Dic [0:06]

Grosjean racconta quei 28":
"Ho visto 'Benoit' arrivare..."

Massimo Costa - XPB Images

Quello che Romain Grosjean, tornato nel paddock di Sakhir per ringraziare e salutare chi è intervenuto sul luogo dell'incidente, ha raccontato all'ex pilota di F1 e commentatore di Sky Sports F1 UK Martin Brundle, è qualcosa di agghiacciante, che personalmente, in 30 anni di motorsport, non mi era mai capitato di ascoltare. Sono le parole di chi ha visto la morte arrivare velocemente, di chi ha pensato che tutto stava per finire. Un uomo in gabbia, che ha avuto addirittura un momento di lucida follia nel dare un nome alle fiamme che lo stavano per strappare alla vita: Benoit. Chissà perché. In quei 28" che sono sembrati una eternità, come accade sempre a chi si ritrova a vivere momenti drammatici, Grosjean ha pensato velocemente, come solo sanno fare i piloti, in una alternanza folle di emozioni negative e positive.

"28 secondi? A me sono sembrati molti di più, almeno un minuto e mezzo", ha iniziato Grosjean. "Quando quel che rimaneva della vettura si è fermata, ho aperto gli occhi e mi sono subito slacciato la cintura di sicurezza. La cosa che non ricordavo è dove avevo messo il volante, perché non mi sembrava di averlo tolto, ma era finito tra le gambe, si è rotto ed è scivolato giù. Quindi ho provato a saltare fuori, ma sentivo che qualcosa mi toccava la testa, così mi sono seduto di nuovo, mi sono detto che la macchina era capovolta e il mio primo pensiero è stato: aspetterò, qualcuno arriverà ad aiutarmi". 

"Poi, mentre mi guardavo attorno, ho visto dell'arancione. Ho immaginato fosse la luce del tramonto, poi quella della pista. Ma girando la testa a sinistra e a destra, ho capito che era il fuoco e la visiera si stava come sciogliendo. Allora mi sono spaventato, non potevo aspettare. Mi è venuto in mente Niki Lauda, il suo incidente al Nurburgring in cui ha rischiato di morire tra le fiamme. Non voglio finire così, mi sono detto. Ho provato a muovermi, ma era come fossi bloccato, non riuscivo a uscire fuori. Non vedevo una via di fuga e allora mi sono riseduto e ho provato una strana sensazione, il mio corpo ha iniziato a rilassarsi, ho come quasi sorriso. È stato il momento meno piacevole, mi sentivo in pace con me stesso e ho pensato veramente che stessi per morire. E si è verificata una cosa strana, le ho dato un nome, alla morte: Benoit. Non so perché, ma ho sentito questo bisogno. E mi sono chiesto: sarà doloroso? Da dove inizierà? Dal piede, dalla gamba?".

"Poi, ho pensato ai miei tre bambini che non avrebbero più rivisto il loro papà È li che mi sono scosso, non so perché, ma ho girato il casco a sinistra, ho provato a salire di nuovo e a girare la spalla che infatti è uscita dall'Halo. Ma avevo il piede sinistro bloccato sotto il pedale. Ho tirato più forte, il piede è venuto via e la scarpa è rimasta lì dentro. I miei guanti iniziavano a diventare neri. Oramai ero fuori dall'abitacolo, sono salito sulle barriere, non vedevo niente, e in quel momento qualcuno mi ha tirato la tuta, era il medico Ian Roberts. Ecco, in quel frangente ho capito che ero salvo. Avevo dolore alle mani dentro ai guanti infuocati, il medico mi urlava di mettermi seduto, avevo male anche al piede, pensavo fosse rotto. Riuscivo a capire quel che Ian mi diceva, è stato un attimo di soddisfazione sua e anche mia perché era la prova che ero cosciente".

Grosjean, scioccato, quando torna in sè capisce che tutto era andato in TV, che a casa avevano visto quelle drammatiche immagini. Bisognava mandare un segnale e per quello ha voluto camminare sostenuto dai medici per andare sull'ambulanza: "Credo che dal punto di vista medico non sia stata la decisione ideale, ma hanno capito che per me è stato fondamentale. Avevo bisogno di mandare un messaggio forte. L'insistenza dei replay? Non sono contro, è servito a testimoniare che ero sopravvissuto e poi la F1 ha le sue esigenze, anche quella di far vedere che quello che accade non è un fake, non è immaginazione, il mio incidente era sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Questa è la storia completa dei 28 secondi. Come potete capire, a me sono sembrati molti di più, con tutti i pensieri che avevo". Ed è vero, non sono affatto 28 secondi, ma minuti...

Grosjean prosegue: "Il corpo recupererà. Ho una soglia del dolore molto alta, non l'ho detto a nessuno, ma quest'anno mi sono rotto il braccio destro scivolando sul pavimento della cucina di casa. Mentalmente, vengo seguito da una psicologa già da otto anni e anche in questi giorni stiamo parlando per agire in fretta ed evitare le tipiche conseguenze post traumatiche, flashback e cose del genere. Quanto a tornare a correre, non sarà la gara di Abu Dhabi a cambiarmi la vita, ma il fatto che sia in grado di vivere il resto della mia vita in modo normale. Mia moglie era a casa, e solo quando è arrivata la notte stessa dell'incidente e mi ha abbracciato, ha capito che ero davvero vivo. I miei figli mi mandano messaggi tutti i giorni: il maggiore, Sasha, era preoccupato che rimanessi tutto bruciato, Simon ha spiegato ai suoi compagni di scuola tutta la dinamica dell'incidente, Camille è ancora piccola e mi manda baci. Per loro sono un supereroe".

"Ma non è così, l'Halo, la protezione cui ero contrario, mi ha salvato e gliel'ho detto al presidente Jean Todt, solo gli stupidi non cambiano idea. Ne abbiamo parlato anche con i colleghi che mi sono venuti a trovare in ospedale già domenica notte, Magnussen, Vettel, Albon, Ocon. E poi, in quel momento mi ha guidato un istinto di sopravvivenza e un modo di agire matematico. Mi ha salvato il fatto di essere rimasto lucido, senza panico, ed è un insegnamento che mi porterò dietro per il resto della mia vita e che vorrei rimanesse come lezione per il futuro, sono pronto ad aiutare la federazione e chiunque altro per migliorare questo aspetto per la sicurezza come molti altri, per esempio nel fare guanti che lascino agilità alle mani ma che siano più resistenti. Ma quanto all'estrazione dall'abitacolo, io sono il re, spero che mi esenteranno dai test in futuro".
 
"Ripeto, non sono un eroe, ma lo sono tutti i medici che salvano le vite ogni giorno. Se torno in macchina ad Abu Dhabi la settimana prossima? Vorrei, magari per chiudere la carriera passando un traguardo meno drammatico di quello di domenica scorsa. Ma se non mi riesce, ne avrò altri da attraversare nella vita. Se torno in auto so che i miei familiari pensano che lo faccio per egoismo. Il fatto è che non è importante quello che mi è successo e quello che ho attraversato, visto che è il mio lavoro, ma se c'è una cosa che mi fa male, che mi fa piangere, è far soffrire loro".