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11 Lug [13:34]

Hamilton e le emozioni della F1
"Noi piloti facciamo la differenza"

Massimo Costa

Lewis Hamilton si racconta. Il pilota più vincente del decennio, che sta ridisegnando le statistiche, che è avviato alla conquista del suo sesto titolo iridato, in fondo è un ragazzo come tanti, un pilota che ancora cerca di migliorarsi, di trovare stimoli dove lui solo sa come. Hamilton a cuore aperto, in una profonda intervista concessa alla Gazzetta dello Sport.

Il pilota della Mercedes non ha dubbi nel sostenere che l'uomo fa sempre la differenza in F1: "Sì, assolutamente! Si può. O almeno, alcuni possono. Se prepari bene la monoposto, la adatti al tuo stile, puoi tirar fuori qualcosa in più. E a dire la verità negli ultimi due anni è successo che pilotassi un’auto di cui non eravamo contenti, lottando al limite e riuscendo anche a vincere. Non è solo la guida. È il lavoro con gli ingegneri, sistemare l’assetto, la frenata, i rapporti del cambio, come conservi le gomme, come spingi in certe curve e non in altre: tutto si somma nel fine settimana e trova il suo compimento in gara».
 
Lewis spiega il suo istinto, la propria aggressività, ma non solo quella: «E’ qualcosa di naturale, ma dipende anche dall’esperienza, dall’averci provato: ho fatto un mucchio di errori, sono qui da molto tempo… Però succedeva anche da ragazzo, quando ho iniziato con i kart e ne avevo uno usato perché ci mancavano i soldi: ero sempre al limite e dunque dovevo scegliere al volo la miglior soluzione. Ho lavorato anni per avere tutti gli elementi giusti al top: aggressivo o riflessivo quando serve. E in più sono parte di un team. In Canada con Seb il mio istinto è stato “Dai gas!”. Sono un combattente, se ci tocchiamo ci tocchiamo. Ma dietro di me ci sono quasi 2000 persone che dipendono dalla mia decisione: se faccio un incidente perdiamo la gara e sono zero punti in classifica. Scelte di un attimo, in cui inconsciamente però entra tutto».

Profondo e anche curioso il rapporto che ha con i suoi ingegneri: «Li sfido ogni giorno. In McLaren era difficile. C’erano cose che volevo, sapevo avrebbero funzionato. Ma all’inizio in squadra c’era Alonso, un due volte campione del mondo, e seguivano lui. Poi sono sempre stato percepito come un pilota giovane. Quando sono arrivato in Mercedes, invece, mi hanno ascoltato tanto. Di sicuro non li ho mai portati sulla strada sbagliata… Ho potuto esprimermi su tutto. Quando parlavo con Aldo Costa e gli dicevo “Perché verniciamo sotto il fondo? Non serve”, la volta successiva avevano cambiato. I contrasti più grandi con i tecnici, in cui restiamo sulle nostre posizioni perché siamo tutti testardi, arrivano quando si fidano troppo dei dati dei computer mentre io traduco le sensazioni da pilota. Ogni tanto serve un po’ di lotta per rompere la rigidità, ma quando alla fine riesco a imporre la mia idea e funziona mi piace moltissimo. È una soddisfazione, perché tutti questi ingegneri hanno studiato un sacco e sono super intelligenti. Quando invece ha ragione il pilota e può buttar lì un “te l’avevo detto” è tanto divertente…».

Hamilton spiega quali sono state le sue prime impressioni una volta guidata per la prima volta la W10, che non andava poi così bene: «Potete immaginare alla fine della prima giornata, quando sono sceso dall’auto e ho parlato. Ho provato a essere chiaro e conciso però è stata una riunione molto lunga: ho spiegato ogni più piccola sensazione, anche due volte in caso sfuggisse. Ma sono stato costruttivo. Non ho mai detto: “Qui andiamo bene”. Non serviva. Solo: “Qui abbiamo un problema, qui un altro, qui un altro ancora, in quest’area succede questo”. Ma è anche vero che dopo i primi giri con una monoposto non sai mai bene com’è, come va, come la senti. È come una relazione umana. Incontri una persona per la prima volta, sembra carina, ma non conosci il carattere e non ti fidi ancora, non sai cosa la rende felice o cosa fa funzionare tutto. Con un’auto è lo stesso: impari qualcosa in quei primi giorni e poi continui per tutto l’anno».

I test sono importanti, ma a Lewis non piacciono proprio: «Quelli di gomme in particolare. C’è gente che si taglierebbe un braccio per fare il mio mestiere, ma come in tutti i lavori del mondo c’è una parte che col tempo diventa noiosa. Ci sono prove in cui i primi 20 giri sono belli, poi pensi che ne devi fare altri 100 e ti dici “Oh, mamma…”. Sai già come va la macchina, non c’è competizione, non è il massimo del divertimento. Ai test non sono molto interessato. Primo: non mi diverto. Secondo: non mi migliora come pilota. Ma in Bahrain, dopo il GP, provavamo qualcosa che avevo segnalato a Barcellona e aveva richiesto un mese per ottenere i pezzi: lì ho girato io, non volevo che un altro valutasse se quella era la direzione giusta. Sfortunatamente è piovuto, così non mi sono sparato i soliti 120 giri… Ma ci sono piloti felici di farlo, alcuni amano girare in tondo tutto il giorno. Non li capisco».

Hamilton spiega poi la propria evoluzione agonistica: «Ti evolvi ogni anno perché sono diverse le auto, le piste, le gomme, tutto. La base è quella, da un certo punto di vista sono lo stesso pilota del 2007 quando ho esordito in Formula 1. Ma aggiungi conoscenza, informazioni e studi te stesso. Ho la stessa velocità pura, naturale, che ho un po’ raffinato, ammorbidito se vogliamo. E adatto il mio stile di guida a ciò che serve. Per me il talento contiene l’intelligenza tattica. Poi, se ne hai molto, puoi decidere di lavorare poco o tanto. Senna e Schumacher avevano una grande etica del lavoro ed è il motivo per cui hanno conquistato tanto successo. Io punto a quel tipo di atteggiamento. Non so tradurlo in percentuale, ma in F.1 ho scoperto che, anche vincendo, dovevo lavorare molto. La gente pensa non serva. Anche mio fratello mi dice: “Sei fortunato con quel talento”. Ma non basta. Tutto ciò che non si vede, l’allenamento, le riunioni infinite con i tecnici. In questo sono riservato e non ne parlo spesso, ma ho un deficit di attenzione, dopo mezz’ora arriva un momento in cui non seguo più, non sono concentrato. Allora chiedo uno stop. Prima andavo avanti, stavo lì anche se sapevo che in testa non entrava più niente. Adesso mi fermo: “Devo andare a fare un giro, devo uscire, fare qualcosa, poi torno”. Mi capiscono».

Il rapporto con il compagno di squadra Bottas è certamente migliore di quello con Rosberg...«Un rapporto senza negatività. Ci sono piloti che farebbero di tutto per vincere, venderebbero la loro madre per riuscirci. Valtteri vuole solo migliorare e poi puntare al successo. Quest’anno, a inizio stagione, è tornato più aggressivo e carico. Sta scoprendo una nuova parte di sé. È bello ma non condiziona la nostra relazione: tra noi non c’è animosità. Il suo arrivo ha aiutato il clima in squadra. E abbiamo gente in gamba che ci guida, ci aiuta. Non c’è un team migliore in F.1».

Infine, Hamilton parla del confronto ieri e oggi, e soprattutto dei brividi che regalava il sound dei motori F1... di un tempo: «No, non voglio fare confronti. Siamo tutti unici a modo nostro: non c’è un altro me, non c’è un altro te. Ci sono similitudini però non puoi paragonare musicisti dagli Anni 60 e di oggi, è tutto così diverso. L’umanità è andata avanti, siamo una specie più sofisticata rispetto a l passato. Ma io sono nato negli Anni 80 e vedevo mio padre guidare con il cambio manuale. E’ più difficile, lo vorrei per quello. Oggi abbiamo i motori V6 ibridi e va benissimo, la F.1 sta andando giustamente verso il rispetto per l’ambiente. Ma ho nostalgia del rumore di una volta, mi manca. Non dimenticherò mai quando sono andato a Spa con papà nel 1996 e ho visto Michael Schumacher uscire dalla prima curva: era come al passaggio di un jet a bassa quota. Ho fatto un salto: “Wooooow!”. Mi si è bloccato lo stomaco e mi è venuta la pelle d’oca, sono impazzito. Adesso non è così eccitante: il suono è un’emozione. Se esistesse un V12 che non inquina vorrei quel motore, il cambio manuale e la frizione: è la F.1 che ho amato da bambino».