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13 Feb 2008 [13:43]

Il fallimento della Champ Car
Tanta immagine, poca sostanza

Si appresta a giungere al termine l'avventura della Champ Car, da intendersi come ente che aveva rilevato la defunta CART dalla bancarotta del 2004. Ente che, lungi dal mettere in atto un rinnovamento strutturale, ha cercato di costruire una crescita più basata su una comunicazione fatta in grande che sull'automobilismo in senso stretto. Anni luce distante dalla storia CART, la neonata serie era sembrata in difficoltà sin da subito, con molte vetture gestite dai titolari della serie, vittorie a ripetizione di uno dei pochi team "indipendenti", il Newman-Haas Racing con Sebastien Bourdais, e il mantenimento di un regolamento motoristico tra i più datati al mondo.

Purtroppo il successo annunciato per la stagione 2007, si era rivelato un disastro, pur propinato ai media come un rinnovamento. Cambiamenti di piloti, gare annullate, altre di buon successo ma tanto onerose da organizzare e gestire da aggravare la crisi. In più, una nuova vettura che ha regalato, come principale highlight, uno score di infortuni da record.

Dall'altra parte, una IndyCar Series che ha speso gli ultimi 2 anni a consolidare le proprie posizioni, senza risultati impressionanti, ma con una serie di passi avanti importanti realizzati di volta in volta. La riduzione dei costi in primis, punto nevralgico delle corse in un continente che vede la peggior crisi della propria storia nel settore automobilistico. Motori Honda indistruttibili, con un occhio all’ambiente, sempre più una priorità: alimentati a bioetanolo ed evoluti nell’ottica di un’intelligente riduzione dei rumori. In più un telaio Dallara che si avvia (quasi invariato) verso gli ultimi due anni di vita come uno dei migliori nella storia recente dell'automobilismo per successo e sicurezza.

Tutto rose e fiori? No, nella maniera più assoluta. Se uno spiraglio si era aperto nelle precarie condizioni economiche mondiali, sembra pronto a richiudersi a seguito delle recenti spinte recessive e della continua crisi di Chrysler, Ford, e General Motors (che ha offerto buonuscita alla quasi totalità dei propri dipendenti dopo aver incassato la peggior perdita di sempre). Basti pensare alla bancarotta nell'ultimo decennio di nomi come Worldcom, KMart, Conseco, da sempre grandi sponsor e alla tendenza degli altri a puntare verso la NASCAR come "investimento sicuro". La categoria della famiglia France è a sua volta alle prese con una situazione non facile, ma grazie ad un "bonus" passato notevole, e ad una base sportiva, quella stock-car, veramente sterminata, ha discrete possibilità di passare indenne o quasi.

Altro nodo per la IndyCar sono proprio i rapporti difficili con ISC (compagnia di proprietà della famiglia France), che detiene i migliori ovali degli USA. Pur sostituiti via via, nei calendari IRL, da promotori "ribelli" come quelli di Kentucky, Milwaukee e, recentemente, Iowa. Anche ammettendo di poter fare un calendario senza dipendenze, una connessione di qualche tipo con la NASCAR sarà sempre necessaria, vista l'impressionante capacità dell'organizzazione di segnare il tutto-esaurito anche con le categorie subalterne come Nationwide e Truck, e la crescita del business endurance (la famiglia France è titolare anche della Grand Am). E se il massimo della collaborazione sono stati i test a Daytona... c'è da lavorare.

Sicuramente l'acquisizione degli asset ChampCar nella IndyCar Series è un passo importante. Tranne che nei tempi d'oro della CART anni '90 (in cui però la Zanardi-mania nascondeva i disastri, come quelli degli ovali europei), l'automobilismo USA a ruote coperte è sempre stato e sarà, per una buona percentuale, Indy. Indianapolis, come disse Eddie Cheever raccontato da Jack Arute, non è un circuito, e la Indy 500 non è una gara. E' un organismo che vive e respira, che ti può salvare ma che va preservato. Perché senza Indy, le ruote scoperte USA non solo rischiano di non esistere, ma cosa molto peggiore, rischiano di diventare indifferenti.

Marco Cortesi