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13 Apr 2021 [12:16]

La battaglia di Hamilton contro il
razzismo e per una F1 più inclusiva

Massimo Costa - XPB Images

In una bella intervista rilasciata alla Gazzetta dello Sport, Lewis Hamilton parla di sé e del suo impegno a favore delle minoranze, affinché in un futuro non lontano, possano far parte del paddock della F1 nel ruolo di ingegneri, piloti e quant'altro ragazzi e ragazze che oggi per vari motivi non riescono a lavorare nel motorsport. E' un Hamilton sempre molto pensieroso e profondo quello che abbiamo potuto conoscere negli ultimi anni.

Dunque, come rendere meno esclusivo il mondo della F1? Ecco la risposta del sette volte campione del mondo: «Mi sono guardato intorno, mi sono chiesto perché il nostro sport avesse questo problema. Non ero soddisfatto della risposta, sembra che nessuno ne conosca il motivo. Serve partire dai dati per scoprire che barriere ci sono all’ingresso. Perché i ragazzini neri, ad esempio, non scelgano di studiare certe materie per finire poi in università e di conseguenza a lavorare in F.1. Ho messo insieme una commissione, che da 9 mesi sta lavorando con tanta gente impegnata, analisi, incontri su Zoom, conversazioni e discussioni, idee. Per luglio dovremmo essere pronti con qualche risultato solido e informazioni concrete. Che metterò a disposizione della Mercedes, degli altri team e della FIA. La F.1 è la punta dell’iceberg, il suo esempio può ricadere sui kart e sullo sport di base. È un processo lungo, richiede tempo, ma adesso la gente si è fatta l’idea che un cambiamento serve».

Hamilton spiega chi è stato, e perché, uno dei suoi principali simboli quando era ragazzino: «Muhammad Ali, da quando ero ragazzo, è il mio re: come atleta, attivista, per la grandezza dell’uomo e della sua voce, era il più intelligente e quindi riusciva a farsi sentire. Nessuno è stato come lui. Poi Serena Williams, una delle più grandi persone e sportive che io abbia ammirato, un fenomeno. Questi svettano, ma ci metterei anche Tiger Woods. Hanno la pelle come la mia, e questo ha inciso. Tra le cose che si notano da bambino c’è che le action figures, i modellini, i supereroi, sono tutti bianchi. Superman era il mio preferito, ma dicevo 'non è uguale a me', quindi nella mia mente non c’erano persone di colore che potessero diventare supereroi. Invece, un ragazzino deve essere in grado di immaginare di avere poteri illimitati, di cambiare il mondo. Se ti limitano psicologicamente così, hai bisogno di eroi e allora lo sport aiuta. Loro sono stati i miei supereroi».

Hamilton parla poi del rapporto speciale che si è creato con il team Mercedes: «Credo sia una relazione senza precedenti perché quando sono arrivato ho detto subito: 'Io sono fatto così, non sono strano o particolare, ma mi piace questo, mi rende felice e, oltre a vincere dei campionati per voi, vorrei coltivarlo'. Mi hanno dato spazio per crescere, si è rivelato l’ambiente migliore della F.1 per farlo. E il mio stile di vita non ha fatto mancare niente. Abbiamo vinto moltissimo, siamo il team più forte, pieno di sponsor, abbiamo il seguito più grande sui social, e tutto è nato dalla collaborazione che è fondamentale. Significa tirar fuori e mettere in comune le idee migliori, mai da soli, provando strade diverse. Il successo è sotto gli occhi di tutti, ma viene da molto lontano».
 
Cosa farà Hamilton quando smetterà di correre? Rimarrà concentrato nel perseguire i suoi obiettivi per cui sta lottando al di fuori dell'abitacolo di una monoposto? Ecco la sua risposta: «Potrei, e credo di volerlo. Ma è difficile per me pensare a quando non correrò. Crescendo ho imparato che cambiare le cose quando ci sei dentro è più facile e riesce meglio rispetto a quando lo vuoi fare da fuori. La F1 mi ha offerto una piattaforma per raggiungere un sacco di gente, informare, mandare messaggi positivi, incoraggiare le persone, spingere. A un certo punto anch’io mi dovrò fermare, ma la missione per rendere il motorsport più inclusivo non uscirà mai dalla mia mente, è qualcosa per cui vorrò sempre lottare. Non bastano certo uno o due anni, il problema dev’essere attaccato dal basso, la vera chiave è la fase dell’istruzione, guardare ai giovanissimi e incoraggiarli per avere poi più meccanici, ingegneri, donne e di tutti i colori, nei GP».
 
Cosa spinge Hamilton, dopo tanti anni di F1, dopo aver infranto tutti i record di vittorie e pole positions, a essere ancora così concentrato, ad avere ancora fame di successo? «È ciò che ho fatto per una vita, da quando ero bambino, dai kart, e resta sempre così figo, pilotare le auto progettate da questi geni, da gente di talento. Dopo tutto il loro lavoro, io sono quello che va in pista e prova a farlo funzionare, è sempre una grande sfida, molto dura. Vincere così tanti Mondiali non significa avere tutto sotto controllo, che ogni anno tutto vada liscio, si può sempre migliorare nelle idee e nella comunicazione. Quando inizia una stagione non sai mai dove sei e io tutto questo lo amo. La stagione 2021 sarà la più dura da molto tempo a questa parte, però per me e la squadra può essere molto stimolante».
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