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27 Nov [11:05]

Con Rob Howden alla scoperta
dei campionati della Road to Indy

Mattia Tremolada

Nel corso delle ultime stagioni i campionati della Road to Indy hanno conosciuto uno sviluppo e una crescita notevole, acquisendo notorietà e interesse anche livello globale, sfondando i confini degli Stati Uniti. Numerosi sono i fattori che hanno contribuito a questo successo e per analizzarli ci siamo rivolti a Rob Howden, Series Development Director dei campionati USF Pro, ovvero USF Pro 2000, USF 2000 e USF Juniors.

Rob, partirei dalla vettura, che è una delle più interessanti del panorama delle formule addestrative. Parlo al singolare perchè lo stesso telaio Tatuus equipaggia le vetture di tutti e tre i campionati.

“Questo concetto è nato nel 2017, quando abbiamo deciso di passare dal modello in uso in quel momento, ad un’auto più moderna. Scott Elkins, che a quel tempo era il nostro direttore di gara, ha aperto la strada per la collaborazione con Tatuus. La prima auto che abbiamo prodotto è stata la USF 2000 nel 2017, che fin dall’inizio ha avuto un ottimo successo. A quel punto ci siamo chiesti, perchè non proseguire con questo progetto? Quindi abbiamo iniziato a sviluppare la Indy Pro 2000 (precedente denominazione dell’odierna USF Pro 2000, ndr) su quello stesso telaio, adattandolo ad una vettura più potente, con ruote più grandi, freni maggiorati e aerodinamica più sofisticata. Abbiamo anche mantenuto lo stesso motore, il che è stato di grande aiuto per i molti team che gareggiano in entrambe le serie e così è nata la PM18 per l'Indy Pro 2000”.

Poi è arrivata anche la USF Junior.

“Nel 2022 abbiamo deciso di implementare il sistema halo sull'auto per aumentare il livello di sicurezza. Allo stesso tempo è nata la categoria USF Junior, che aveva lo scopo di accogliere i giovanissimi piloti che si approcciano alle monoposto dal kart. Anche in questo caso la genesi è stata semplice, perchè partendo dall'auto che gareggia nella USF 2000 abbiamo aggiunto un restrittore e sostituito alcuni elementi con altri più affidabili per rendere l'auto più semplice da gestire ed economica”.

Ritieni che utilizzare la stessa vettura per tre differenti campionati agevoli il passaggio dei piloti alla serie superiore?

“Direi che un pilota che sale dalla USF Junior alla USF 2000 ha già una buona base di conoscenza, ma è comunque chiamato ad adattarsi ad una maggior potenza, con un incremento di 40 cavalli. Diverso è il discorso quando parliamo del balzo nella USF Pro 2000, perchè oltre ad avere più cavalli della USF 2000 ha molte altre differenze, che chiamano il pilota a modificare maggiormente il proprio stile di guida”.



Nella foto sopra, Howden con Nikita Johnson.

La crescita del parco partenti negli ultimi anni è stata notevole, quale credi sia stata la chiave di questo successo?

“Prima di tutto abbiamo creato una piattaforma molto stabile. Stiamo entrando nella 16esima stagione, abbiamo uno staff navigato e la vettura, ancora molto moderna, è la stessa dalle stagioni 2017 e 2018. Questo fa sì che il budget sia piuttosto contenuto, specialmente rispetto ai campionati di Formula 4, che ormai sono fuori dalla portata di molti piloti. Giusto per fare un paragone, il budget richiesto per correre nel FIA Formula 3 è superiore a quello della Indy NXT. Inoltre, i risultati dei nostri alunni parlano chiaro, tra gli ultimi sette campioni di USF Pro, cinque saranno in Indycar il prossimo anno, mentre Myles Rowe (2023) e Lochie Hughes (2024) saranno tra i protagonisti della Indy NXT. L’opportunità, a fronte di un budget contenuto, è davvero eccezionale e il fatto di correre a contorno dell’Indycar rappresenta un ulteriore valore aggiunto”.

“Inoltre - prosegue Howden - guardando alle classifiche dei nostri campionati, capita spesso di vedere cinque team differenti nelle prime cinque posizioni. Quasi tutte le squadre che partecipano hanno l’opportunità di vincere o quantomeno di salire sul podio. Una cosa che in Europa è impensabile. L’espansione dei campionati USF Pro si riflette poi nell’Indy NXT, che a propria volta è riuscita a ripopolare la propria griglia dopo un periodo complicato grazie ai piloti provenienti dalla nostra filiera. Kyle Kirkwood è un esempio perfetto di come funziona il percorso Road to Indy, in quanto ha vinto tutti i campionati a cui ha preso parte (USF 2000 nel 2018, Indy Pro 2000 nel 2019, Indy Lights nel 2021). Ma anche Pato O’Ward, Spencer Pigot, Rinus Veekay, Oliver Askey hanno disputato tutto il percorso fino ad arrivare in Indycar”.

Quanto è importante per voi avere in calendario almeno una corsa su ovale in ogni categoria?

“Ovviamente il nostro scopo primario è quello di formare piloti per l’Indycar, quindi è fondamentale gareggiare sulle stesse piste della serie regina. Per questo il nostro calendario prevede sia circuiti cittadini, come St. Petersburg e Toronto, sia corse su ovale, sia circuiti stradali tradizionali. Per quanto riguarda la USF Pro 2000 siamo stati vicini ad aggiungere una seconda gara su ovale, sfumata solo all’ultimo momento”.



Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un vero e proprio esodo di piloti provenienti dall’Europa e diretti verso gli Stati Uniti. Quali sono le difficoltà maggiori che incontrano?

“Credo che una delle maggiori difficoltà per un pilota proveniente dalle corse europee nell’adattarsi ai nostri campionati siano le gomme. Le nostre Continental non seguono la filosofia europea, che fin dalle categorie inferiori cerca di preparare i piloti alla Formula 1, progettando pneumatici con grande degrado. Le nostre gomme invece hanno una mescola più dura, quindi garantiscono la stessa performance a lungo. Non è raro vedere piloti fare il giro veloce della gara nelle battute finali, perchè il degrado è veramente minimo”.

Il team VRD al contrario ha creato una forte connessione tra USF e GB3 principalmente, schierando talvolta gli stessi piloti in entrambi i campionati. E Nikita Johnson per esempio ha vinto diverse gare su entrambi i fronti.

“Nel caso di VRD credo che questo team abbia dei piloti con un budget importante, desiderosi di percorrere molti chilometri per crescere velocemente. E alla luce delle limitazioni ai test che abbiamo imposto per i nostri campionati, questi sono andati in Europa per fare esperienza”.

Negli Stati Uniti, una volta finito il proprio percorso nel karting, i piloti si trovano ad un bivio, potendo scegliere se gareggiare con le monoposto nella Road to Indy o seguire il sentiero che porta verso la NASCAR.

“È vero, ci sono molte strade da seguire per un pilota americano che ha finito il proprio percorso nel karting. In Europa credo sia molto più facile, perchè generalmente si segue la strada che porta verso la Formula 1 e solo in un secondo momento si devia verso le gare endurance e GT. Negli Stati Uniti la carriera in monoposto è più focalizzata verso la Indycar che la Formula 1, ovviamente, ma si può scegliere immediatamente di seguire una carriera con le ruote coperte verso l’endurance o verso la NASCAR, direi che ci sono molte opportunità a seconda della propria passione. I ragazzi che vogliono andare in Indycar approdano direttamente nella Road to Indy nei campionati USF Pro. Per coloro che vogliono trovare posto nell’endurance la Mazda MX5 Cup è una categoria entry-level molto popolare. Infine se si vuole seguire il percorso della NASCAR ci sono diverse vie, come gli short track, le Late Model, le Trans-Am. Con NASCAR se hai molto talento puoi trovare supporto velocemente”.

Guardando al motorsport USA dall’Europa sembra che ovviamente la NASCAR sia ancora la classe regina, ma che al tempo stesso ci sia una grande crescita di popolarità della Indycar. A cosa credi che sia dovuto?

“Credo che sia una questione di opportunità. In Europa a prescindere dal budget è molto difficile farsi strada in monoposto se non si è parte di un programma junior di un team di Formula 1, mentre da noi ci sono molte più occasioni, come dimostrano i tanti piloti europei approdati in Indycar nelle recenti stagioni”.